Pubblichiamo il post di Emiliano De Santis partecipante alla IX edizione del Master.

La diversità multiculturale è caratteristica divenuta, ormai, strutturale nella nostra società. Come sosteneva la teorica delle organizzazioni Ting-Toomey, sia che essa si configuri per essere di tipo etnico/culturale, generazionale, di genere, di personalità (classificabile, quindi, come diversità primaria), sia che comprenda elementi che possano essere acquisiti nel tempo come la formazione professionale o l’appartenenza a sotto-culture organizzative (diversità secondarie), ignorarne l’esistenza significherebbe essere ciechi di fronte ad una realtà riscontrabile nella vita quotidiana di ogni individuo. Anche le organizzazioni, siano esse pubbliche, private o non profit, risentono di questo cambio di paradigma: infatti, se fino a pochi anni fa era possibile riscontrare, all’interno di una organizzazione, un limitato livello di diversità (quantomeno dal punto di vista etnico/culturale), oggi la situazione è radicalmente cambiata, in virtù anche di vari processi in atto come l’internazionalizzazione dei mercati, la globalizzazione, la necessità di rapportarsi con stakeholders diversi, nuovi processi migratori.

Il concetto di organizzazione multiculturale porta, necessariamente, con sé quello fondamentale di “capitale multiculturale” definibile come l’insieme dei tratti culturali distintivi di una organizzazione che contribuisce a formare il patrimonio di “asset” immateriali che determinano la natura dell’organizzazione stessa: i valori effettivamente condivisi, i paradigmi organizzativi di problem solving, le pratiche associate ai processi creativi e all’innovazione, la maniera di affrontare le situazioni, il modo di concepire le relazioni all’interno e all’esterno dell’organizzazione, sono alcuni degli elementi tipici che compongono il capitale culturale di una organizzazione.

capitale multiculturale

Gestire tale diversità (diversity management), intesa come la necessità/opportunità per le organizzazioni di comprendere e saper gestire le differenze, diventa strategico per la vita stessa dell’organizzazione. Il diversity management è un processo di cambiamento che ha lo scopo di valorizzare e utilizzare pienamente il contributo, unico, che ciascun membro dell’organizzazione può apportare per il raggiungimento degli obiettivi e che rafforza nei confronti delle sfide e delle incertezze interne ed esterne. Inoltre, è possibile affermare come una politica di diversity management che non ponga al centro del suo operato la persona, l’individuo, rischia di standardizzare le procedure ed i comportamenti alimentando fenomeni di omologazione (elidendo, così, le differenze) o di esclusione.

In questo scenario appare cruciale il ruolo della comunicazione, non solo come mezzo per veicolare le informazioni, ma come fattore strutturale e strategico per la vita dell’organizzazione stessa: la comunicazione permette la circolazione di idee, la condivisione di valori e obiettivi, la conoscenza reciproca, la partecipazione. A tal riguardo, la ricerca ha evidenziato, negli anni, il passaggio da modelli comunicativi di tipo trasmissivo (top-down), a un modello di tipo conversazionale (il quale prevede che la comunicazione organizzativa sia riconducibile alla complessa trama narrativa prodotta dall’intersecarsi dei discorsi organizzativi), fino a giungere ad un approccio pragmatico/performativo: come ci insegna la Scuola di Palo Alto, la comunicazione umana è fatta di interazioni orizzontali (tra pari) e interazioni verticali, di comunicazioni formali ed informali, di comunicazione para e non verbale, di meta-comunicazione.

Alla luce di questo, sembrerebbe che non possano che profilarsi buone prospettive (per la comunicazione) se a supporto di tale approccio si affiancassero le potenzialità dei new media e delle nuove tecnologie di cui il mondo della comunicazione può servirsi oggi. A monte, però, occorre che ci sia una reale, piena consapevolezza e condivisione di questo cambio di paradigma da parte del management a tutti i livelli.