In vista della lezione di Marco Bolasco sul marketing e la comunicazione enogastronomica, pubblichiamo il post di Giuseppe Segreto che recensisce “Cronache golose”, il libro scritto da Bolasco insieme a Marco Trabucco [avvertenza per il lettore: trattasi di post lungo, ma Segreto è il solito secchione…ed è un amante e uno studioso del cibo della prima ora, ben prima che scoppiasse l’odierna passione di massa per la cucina…].
Ogni volta che si avvicina la lezione di Marco Bolasco sul marketing e la comunicazione dell’enogastronomia in molti ci chiedono cosa c’entri con il nostro master. L’anno scorso addirittura ne approfittammo per invitare altra gente e parlare di food tales. Ora, se volete sapere davvero cosa c’entri l’enogastronomia con la comunicazione d’impresa, l’invito è quello di leggere “Cronache golose”, il libro che Bolasco ha scritto insieme a Marco Trabucco, giornalista di Repubblica e fra gli autori della guida I ristoranti d’Italia dell’Espresso.
“Cronache golose”, infatti, non raccoglie solo i racconti dei cuochi e dei ristoranti che hanno fatto la storia della cucina italiana moderna (50 anni, 50 cuochi, 50 ricette), né è un libro che si rivolge esclusivamente agli addetti ai lavori. Si tratta piuttosto di uno strumento formidabile per scoprire – con leggerezza – i segreti della cultura materiale e della storia sociale del nostro paese. Perché “Fini”, prima di diventare un marchio di tortellini ed autogrill, è stato l’unico ristorante in Italia che, nato nei primi del 900 da una salumeria del centro di Modena e divenuto nel frattempo il regno dei carrelli (di bolliti, di arrosti, di dolci), ha potuto fregiarsi della stella Michelin ininterrottamente per 50 anni, dal 1959 al 2009. E perché la “Seppia al nero” di Gualtiero Marchesi, così come il “Cyber egg” di Davide Scabin o la “Passatina di ceci con gamberi” di Fulvio Pierangelini, non sono affatto piatti-feticcio di cuochi divenuti nell’ultimo decennio inavvicinabili personaggi mediatici né, peggio ancora, soggetti privilegiati del food porn contemporaneo. Come mostrano Bolasco e Trabucco, qui abbiamo a che fare con opere che nascono da una riflessione profonda sulle grammatiche del gusto.
Leggendo queste storie ci si rende conto di quanto la definizione stessa delle cucine regionali sia, di fatto, più il frutto di un lavoro di costruzione a tavolino dell’identità culinaria – lavoro fatto magari dagli enti deputati alla promozione turistica o dalle case editrici che devono editare i loro bravi ricettari – che non la reale fotografia di un panorama gastronomico, quello italiano, che è sì ricchissimo, ma, proprio per questo, è anche frammentato. E qui chi scrive sopprime a stento la tentazione di dilungarsi sulle numerose differenze fra le diverse varianti di pasta con le sarde che è possibile riscontrare nelle sole province di Palermo e di Agrigento…
Leggere “Cronache golose” permette anche di sapere come, ben prima che venissero i tempi di Slow food e del kilometro zero, l’attenzione alla materia prima e la derivazione di questa dal territorio siano state una costante della grande ristorazione italiana già a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Il grande merito di Bolasco e Trabucco, tuttavia, è quello di riuscire a trasportare il lettore direttamente all’interno di questi templi della ristorazione, di fargli rivivere l’atmosfera della sala e di metterlo quasi al cospetto del tocco dello chef sul tavolo della cucina (mirabile, a questo proposito, la descrizione del mitico Gambero Rosso di Fulvio Pierangelini).
Non è solo una questione di aneddoti: “Cronache golose” mostra come la storia dell’alta cucina italiana sia anche una storia di grandi amori, di antichi ricettari trovati in cassaforte, di viaggi squattrinati in giro per la Francia alla ricerca delle migliori cattedrali del gusto. È piuttosto la capacità di costruire una semiotica del ristorante, nella consapevolezza che una proposta culinaria è sempre il frutto, oltre che, ovviamente, di una tecnica e di una filosofia gastronomiche (come dice giustamente Massimo Bottura, «il fine ultimo di chi cucina è il palato»), anche del sapiente bricolage di tutte quelle forme di espressione che si presentano al cliente: dall’organizzazione della tavola a quella degli spazi, dalla scelta dei colori e delle luci alla selezione della musica. E a noi, leggendo “Cronache golose”, è venuta la voglia fortissima di provare, fra le altre, la “cucina sacra” di Alajmo e di riuscire prima o poi a vivere l’esperienza estetica di un pranzo all’Enoteca Pinchiorri.
Il libro è impreziosito da due appendici. La prima contiene cinquanta ricette, ciascuna proveniente dal menù dei ristoranti descritti nelle pagine precedenti. In un’epoca in cui siamo letteralmente sommersi dalle ricette può sembrare una sezione banale. Di fatto, però, rappresenta insieme un regalo e una sfida: un regalo perché non è affatto scontato sapere direttamente dalla viva voce degli autori come nascono le opere gastronomiche di un Carlo Cracco o di un Massimo Bottura; una sfida perché qualunque lettore può cercare di misurarsi (solo cercare…) nella preparazione degli “Spaghetti al cipollotto e peperoncino” di Aimo e Nadia o del celeberrimo “Carpaccio Cipriani”.
La seconda appendice ha invece un valore prettamente scientifico. Qui, infatti, l’analisi delle tendenze dell’attuale offerta gastronomica italiana è svolta attraverso l’applicazione del metodo statistico. In particolare vengono analizzate, da un lato, le parole usate per descrivere i ristoranti all’interno delle diverse guide e, dall’altro, le sequenze e le correlazioni lessicali estratte dalla composizione stessa dei menù. In questo modo diventa possibile costruire una tipologia della ristorazione italiana odierna – con tutte le conseguenze semantiche del caso: un conto è optare per una definizione di osteria e un altro conto è impostare una proposta culinaria a partire dal concetto di trattoria. Ma smontare tali repertori lessicali, guardando specificamente alla denominazione dei singoli piatti, significa anche poter descrivere compiutamente alcune linee di tendenza dell’offerta gastronomica contemporanea. Perché – è ovvio – l’effetto di senso di un piatto come “tortino di merluzzo in sfoglia di granturco con crema di verdure e porro croccante” è ben diverso da un tradizionale piatto di “pappardelle caserecce al ragù di cinghiale”.